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Guy Delisle e del perché a me “graphic journalism” fa schifo

Ho sempre evitato quelli che si definiscono graphic journalist. Davvero. E ho sempre evitato anche le paginette, ad esempio dentro a Internazionale, quelle con il titolo graphic journalism. Il giornalismo deve essere oggettivo, distaccato, apatico quasi, è giusto che sia così ed è bellissimo quando è così. Se lo rendi graphic, oltre a poter dire di meno, lo rendi soggettivo. Se sovrapponi strati che si percepiscono anziché capiscono, se lo rendi aneddotico e didascalico, non è più giornalismo. È qualcos’altro.

A questo pensavo fissando la copertina del libro che mi ha prestato A. Mi voglio fidare, mi sembra una persona degna di fiducia, dico davvero, ma sotto al titolo [CRONACHE DI GERUSALEMME], al nome dell’autore [GUY DELISLE] e un paio di vignette estratte dal libri stesso c’è il nome della collana. Corriere della Sera – Collana Graphic Journalism. COLLANA.

Però ripeto, voglio fidarmi. Giro il libro e sul retro c’è un altro piccolo estratto, questa volta una vignetta intera, e sotto un po’ di storiella di questo Guy, che già mi sta simpatico perché si chiama Guy, in più è canadese e i canadesi stanno simpatici a tutti, un po’ come gli svizzeri, e in più cercando poco prima in internet devo dire che lo stile mi piace.

Apro il libro dal fondo alla ricerca di una quarta o qualcosa del genere e trovo la lista degli altri libri della collana. E tra questi c’è Persepolis. E son piuttosto certo che Persepolis non sia journalism. Ed è a questo punto che mi viene il dubbio: forse a farmi schifo non è il graphic journalism, ma è l’espressione graphic journalism. Il significante, non il significato.

Cronache da Gerusalemme

Premetto che la formula della workation è tra le rarissime cose che vanno di moda che condivido e apprezzo. Workation è un portmanteau tra work e vacation, cioè una via di mezzo tra una vacanza e un viaggio di lavoro. La apprezzo perché intanto sei in vacanza, e sentirsi in vacanza fa sempre piacere. Allo stesso tempo però stai lavorando e la coscienza di dover lavorare ti porta ad essere meno apatico e più attento alle cose che ti circondano. Questo almeno per me, che ho bisogno di uno scopo.

A Gerusalemme Guy Delisle ci è andato per seguire la moglie, che lavora per MSF, e una volta lì quello che deve fare è: intanto il padre, che è comunque un bell’impegno, e a seguire girare e parlare con le persone, guardarsi intorno e cogliere quelle cose che alle persone in vacanza sfuggono.

Il risultato è una serie di aneddoti in forma di vignetta, per definizione molto personali ma proprio per questo autentici e forti, che si tratti dei suoi figli che imparano le parolacce ai militari che gli intimano di spostarsi, alle circumnavigazioni di muri.

Da aneddoti, osservazioni e racconti saltano fuori le contraddizioni, le contraddizioni sono il motore ideale dell’ironia, quella fantastica figura di pensiero a due tempi che Guy Delisle evidentemente sa sfruttare, sia quando c’è da dare la colpa ai danesi che quando c’è da spiegare che il santo sepolcro vive grazie alla volontà dei vari spinoff del cristianesimo di mettersi d’accordo. E che poi non ci riescono.

Shenzen

Salto indietro nel tempo di qualche anno, Shenzen è più rustico, sporco, più a matita, rispetto a Gerusalemme. Di solito non mi piacerebbe, a me piace il tratto pulito, ma in questo caso rende benissimo una delle caratteristiche di Shenzen che personalmente ho trovato anche a Pechino: lo smog. Quello smog che sembra nebbia fitta, di quella nebbia che capisci solo se hai passato un po’ di tempo a Crema, ma che rispetto alla pianura padana è fatta di cose chimiche che è meglio non respirare, di sporco appunto, sporco come i disegni di Shenzen.

Fate conto che a Pechino, e di questo Guy Delisle non ha parlato, non si consulta il meteo classico. Tanto non piove quasi mai. A Pechino è utile consultare le previsioni del PM10 per scegliere la mascherina migliore da indossare: se ne può fare a meno, mascherina standard, oppure avanzata, quella della 3M con filtro.

Di nuovo l’ambiente si presta all’ironia, con l’aggravante che parte delle vicissitudini di Guy Delisle le ho sperimentate anche io, che quindi posso dire “fa ridere perché è vero”. Tranne quando si sente e si rappresenta come Tin Tin. Questo solo un francofono poteva pensarlo.

[Nella foto: ausiliario del traffico cinese controlla che nessuno parcheggi nelle strisce appena disegnate, a Guy Delisle sarebbe piaciuto un sacco]

Lawrence d'OrobiaGuy Delisle e del perché a me “graphic journalism” fa schifo

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