Ok, prova a immaginare la scena. Immagina una distesa di acqua, un mare. Azzurro, ma reso blu dalla profondità. Calmo in maniera quasi surreale, al punto che, se visto da lontano, potrebbe sembrare un lenzuolo blu ben stirato. In mezzo a tutto quel blu c’è una sagoma: è una ragazza che galleggia, che fa il morto. Ha gli occhi chiusi e respira lentamente: si potrebbe pensare che sia addormentata, ma non lo è, anzi, è sveglia e attenta. Ha gambe e braccia leggermente aperte, per galleggiare meglio, e indossa un costume intero, perché la fa sentire più a suo agio. Solo una volta ha indossato un altro tipo di costume. Era in un camerino, o a casa di un’amica, ora non si ricorda bene. Si ricorda solo che qualcuno le aveva detto “Provalo dai, vedrai che ti sta bene!” e lei aveva risposto “No, non mi starà bene!”. Lo aveva comunque provato, si era mostrata e aveva detto “Vedi? Mi sta malissimo! Guarda che roba!” ed era tornata subito a cambiarsi. In realtà le stava bene, ma lei non poteva rendersene conto, e comunque nel costume intero si trovava più a suo agio, ed era giusto così.
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Di sedimentazione e decantazione su Spotify
Ok, credo che possa esserci dietro una scienza. Anzi, di sicuro c’è. Spero che ci sia. Ci sono delle sere che l’unica cosa sensata è fare zapping su Spotify e ripescare canzoni più o meno a caso.
Linea 33 – Immersa
Una cosa non è mai mancata in nessun appartamento in cui S abbia mai abitato: uno specchio appeso sopra un tavolino vicino alla porta di entrata. Sì, perché quando S esce di casa deve, come fosse un bisogno vitale, aggiustarsi i capelli biondo cenere dando una rapida occhiata al proprio riflesso. È un attimo. Quanto sarà? Cinque secondi? Sette? Pochissimo. Non fa in tempo nemmeno a notare i suoi occhi blu. O forse quelli non li noterebbe nemmeno guardandosi a fondo. Sarà qualcun altro che li noterà, che li osserverà e che le spiegherà che non sono solo occhi blu, e che non importa nemmeno che siano blu. Quello che importa è il loro riflesso, ovvero quello che rimane del mondo esterno dopo che è passato attraverso la miriade di cellule e molecole e impulsi che lo trasformano in qualcosa di soggettivo. Insomma: prima o poi per qualcuno sarà più importante il suo sguardo che i suoi occhi.
Quattro matrimoni e un limone
Amy Winehouse. La cassa del bar decide di passare Amy Winehouse. Che è perfetta, perché siamo a metà settembre e Amy Winehouse sa di fine estate, sa di ultimi rimasugli di caldo. Sa di quel caldo che lotta e scalpita, di quel caldo che ti fa passare il pomeriggio e la prima serata in maniche di camicia, magari pure arrotolate, ma che si arrende poco dopo cena.
Guy Delisle e del perché a me “graphic journalism” fa schifo
Ho sempre evitato quelli che si definiscono graphic journalist. Davvero. E ho sempre evitato anche le paginette, ad esempio dentro a Internazionale, quelle con il titolo graphic journalism. Il giornalismo deve essere oggettivo, distaccato, apatico quasi, è giusto che sia così ed è bellissimo quando è così. Se lo rendi graphic, oltre a poter dire di meno, lo rendi soggettivo. Se sovrapponi strati che si percepiscono anziché capiscono, se lo rendi aneddotico e didascalico, non è più giornalismo. È qualcos’altro.
Perché Bandersnatch è completamente diverso da un librogame
Netflix pubblica un episodio di Black Mirror interattivo, in cui puoi fare delle scelte che modificano la storia, e la gente impazzisce. Divisi tra quelli che schifano il dover tenere il mouse a portata di mano e quelli che invece vedono nell’interattività il futuro delle serie televisive, quasi tutti i commentatori sono d’accordo su una cosa: il modo più veloce per spiegare cosa è Bandersnatch è paragonarlo a un librogame. Sbagliato.
Ritorno alle puttane, ma anche altre storie affini
Qualche tempo fa ho scritto un post intitolato Storie di Troie e Questioni Affini: ho usato un termine appositamente un po’ edgy, che in qualche modo ha funzionato guardando i risultati di Google Search Console. Un po’ mi spiace perché magari quelle persone stavano cercando storielle sconce e invece io avevo scritto una ridotta antologia di Storie che a vario titolo mi avevano fatto pensare. In ogni caso mi sa che non ne sono troppo dispiaciuto, dato che sto per mettere un termine volgarissimo anche nel titolo di quest’altro post. Oddio, scrive post con puttane nel titolo!
Burly Men at Sea e altri che vogliono raccontarmi storie
C’è dietro una sorta di metastoria. Nel senso che prima di raccontarmi la storia di Burly Men at Sea, prima di farmela raccontare, prima di guidarla, c’è la mia piccola storia di delusioni e acquisti che forse si potevano evitare.
Quelli del club del sigaro mi spiegano il Nicaragua
Cerco su Spotify cigars per trovare una playlist adatta, una di quelle che ti appoggi allo schienale, chiudi gli occhi, respiri a fondo e rivedi, rivivi, quello che hai cercato. Ne trovo una che promette bene, promette Whisky and Cigars, e 24.000 followers gli hanno creduto. Premo play prima di vedere cosa effettivamente c’è dentro: mi accoglie Etta James, dicendo At Last. Io il sigaro non ce lo sento.
Electric Dreams, che è come Black Mirror, ma sa di retro sci fi
Bzz bzz. Mi vibra il telefono. Due vibrate lunghe di solito vuol dire Whatsapp. Oppure un SMS, ma nel 2018 è più probabile Whatsapp. Non ho idea di quale sia la suoneria che ho impostato: io ho sempre il silenzioso con vibrazione attivata. È L che mi chiede se conosco Philip K Dick per poi annunciare trionfante una nuova serie (Electric Dreams) basata sui suoi scritti.